Storia della Farmacia

l'officina delle curiosità

La farmacia e la famiglia, presidi secolari della salute

Il Calendario Antiche Farmacie che presento ormai da 12 anni e stato ideato per due fondamentali motivi:
–riaffermare l’immagine del “modello mediterraneo” della Farmacia, l’unico che sia rimasto immutato e valido per otto secoli
–cercare di salvare dalla dispersione o dalla demolizione una testimonianza di arte povera esclusiva del nostro Paese e sempre a disposizione dei visitatori di questi “musei aperti” che onorano la professione.

Ritratto di Federico II, "De arte venandi cum avibus" f.2

Il modello mediterraneo si dice tale, perché ideato da Federico II° nella sua Corte di Palermo e proclamato nelle Costituzioni di Melfi nel 1241 presenta i cardini della professione farmaceutica
1) Concessione dello Stato per l’apertura dell’esercizio nella misura ritenuta necessaria dall’autorità
2) Pianta organica delle farmacie a copertura del territorio
3) Tariffa uguale ed obbligatoria per tutti.

Prima e dopo questa presa di posizione da parte dell’Imperatore del Sacro Romano Impero, vi furono altri due esempi di modelli legislativi, su aree più ridotte; modelli che nascono dal basso e raccolgono istanze della pratica del vivere quotidiano in quell’immensa periferia europea dell’Impero.

Le Leges Municipales Arelatis, dalla comunità di Arles, sulla strada che da Montpellier scende verso la Spagna, battuta precedentemente dalla cultura araba in estensione verso l’Euro­pa, anticipa i seguenti principi:
1) Netta divisione tra medici e farmacisti,con divieto di società tra i due
2) Obbligo di preparare i farmaci su prescrizione, seguendo i dettami di un Antidotario ufficiale
3) Giuramento e pene pecuniarie per i contravventori. Queste sono tre volte più pesanti per il farmacista, riconoscendo la sua responsabilità sulla qualità reale del farmaco

L’accesso alla professione qui appare libero; si introduce un concetto etico nella scelta di chi sarà ammesso alla professione: la correttezza assoluta nei riguardi del pazienti    più avanti, nei riguardi dei colleghi.
Queste leggi comunali si formano tra il 1260 e il 1202.

I Capitolari delle Arti Veneziane (1258), sono opera della Giustizia Vecchia a cui il Doge Ranieri Zen demanda l’invenzione delle regole per la migliore organizzazione di un comune che gradualmente, diverrà uno Stato.
È confermata la divisione tra medico e farmacista in funzione della tutela della gente. Punti chiave delle disposizioni sono:
-Divieto di vendita di veleni (cap. 3)
-Il farmacista deve consigliare ai richiedenti un medico
capace ed onesto, secondo la propria esperienza.
-Non valersi di alcun sensale per scopi pubblicitari (cap. 6)
Obbligo di segnalare alla Giustizia l’esistenza di medicinali guasti o contraffatti (cap.9)
-Informare ii paziente sul giusto prezzo del farmaco e denunciare chiunque agisca contro questi Ordinamenti.
Mi sembra che la figura del farmacista come uomo e come tecnico risulti molto rafforzata, anche nei riguardi del medico.

Alla fine del XI sec. le autonomie comunali si affermano a partire da Milano, Lucca, Pisa, Parma. Le Arti sono libere associazioni create in difesa dei produttori e dell’economia locale, in concorrenza con quella forestiera. Hanno uno spiccato carattere religioso, senso della dignità degli associati, rispetto della discipline interne e della collegialità.
Negli Statuti degli Speziali, categoria che si propone ai vertici del Collegio dei mercanti, dopo i fabbricanti di tessuti e al part degli orefici, compaiono fra i numerosi capitoli disposizioni in favore della famiglia .
Quasi sempre la chiusura nei riguardi degli estranei favorisce la continuità della attività da parte dei figli, essendo privilegiata la loro iscrizione nella matricola
A Firenze, l’estraneo che volesse entrare nella categoria doveva pagare trenta lire alto speziale che lo assumesse come apprendista per tre anni. Doveva poi pagare quattro fiorini come tassa per entrare nella corporazione, tassa dalla quale i figli dello speziale erano esenti.
A Milano , per entrare nel paratico occorreva avere una rendita di almeno 50 scudi e dalla professione erano esclusi i figli di persona esercitante mestieri vili,
A Piacenza, obbligo per I collegiati di presenziare non solo ai funerali del collega ma anche a quelli della moglie e dei figli, con offerta di cera alla chiesa.
A Venezia lo statuto della corporazione elevata a Collegio degli Speziali nel 1565 per disposizione del Doge Gerolamo Priuli, dispone al cap. XVI che nessuno poteva tenere la farmacia a mezzo di un sostituto, ad eccezione del figlio e del nipo­te. Il motivo era non essere conveniente che “…chi non sa ne intende tale arte ,debba praticarla”. È la conferma che l’insegnamento era soprattutto famigliare e che ii Collegio interveniva solo per l’esame di ammissione alla matricola. Secondo il cap. XXXIV ,figli e nipoti potevano continuare a tenere la bottega pagando metà della tassa dovuta e potevano anche giovarsi, in caso di necessaria sostituzione, di altro giovane approvato.
Fin qui leggi, occorre vedere come venivano applicate e come hanno inciso sulla pratica quotidiana e come sono diventa­te consuetudine con l’evolversi del tempo.

La continuità famigliare degli inventari di J.P.Benezet
Ci viene in aiuto un poderoso studio di uno storico francese che ha analizzato 138 inventari di spezierie medioevali raccolte nell’area mediterranea occidentale dall’Aragona alla Sicilia ,passando per Catalogna, Provenza e penisola italica. Erano redatti in occasione di vendite e più spesso di successioni. Da essi risulta che le vedove potevano gestire la bottega del marito per più o meno tem­po. La sua reggenza doveva permettere al figlio abilitato di occupare il posto del padre. Il riscontro legislativo dice che a Barcellona era concesso un periodo di ottodieci anni, con le gestione provvisoria di un commesso approvato dalla corporazione (1433). La vedova doveva mantenere il cognome del marito e non ri­sposarsi. La sua funzione cessava al ventiquattresimo compleanno del figlio.
Condizioni più o meno uguali si riscon­trano negli statuti più tardi di Montpellier (1572), Nimes (1573), Arles (1636). Secondo uno studio spagnolo condotto (Esteva de Segrera) nel 1977, gli statuti più  liberali erano quelli di Marsiglia, dove la vedova poteva continuare la ge­stione senza limiti di tempo (1574), si esigeva solo la pre­senza di un servitore competente.
La continuità famigliare era favorite della struttura im­mobiliare del patrimonio e si verificava più spesso quando la spezieria era compresa nella case di abitazione
I primi inventari in Italia sono quelli di grandi spezierie sorte a Genova dove giungevano le droghe orientali, specialmente dal mercato di Cipro. Nel 1227 lo speziale Enrico di Torre, rimasto vedovo, si ritira in convento e lascia al fi­glio un patrimonio del valore di oltre 300 lire genovesi. Comprendeva undici tipi di droghe in notevole quantità, come 130 Kg di pepe, 38 di cardamomo e 250 cassette di allume del monte Argentario . Ancora pia interessante l’inventario seguito alla morte dello speziale Dondino ,redatto da un notaio in presenza di un Console di Giustizie e del collega Oberto, dichiarato tutore del figli minorenni. Qui soro annotati, oltre ad un Antidotario, molti prodotti composti pronti per la dispensazione dalla Benedicta lassativa all’elettuario per i vermi, il Diamargheriton (1259).
Questa attività appare totalmente libera nell’ambito delle altre attività commerciali ed un altro inventario del 1312, riguarda la vendita di una apoteka e della casa dei coniugi Lanfranco e Giovannina allo speziale Gregorio di Monte.
E’ molto noto il Memoriale dello speziale grossista di Asti, Guglielmo Ventura (1250-1322), importante per la storia piemontese perché l’uomo ricoprì incarichi politici per la sue citta. In esso è compreso un suo testamento del 1312,un vero trattato di deontologia rivolto ai figli, che incitava a non abbandonare la professione, da vivere con onesta e senza voglia di arricchire in fretta. Fu anche protagonista della estensione della farmacia, sulle strade che da Genova portavano alle regioni dell’interno. Qui si sviluppavano delle spe­zierie di minori dimensioni, che si limitavano alla dispensa­zione al pubblico. Il documento piacentino illustra un con­tratto d’affitto del 1309, con il quale, certo Guidoto Tagliaferro, acquista anche ii “massericium” necessario alla gestio­ne per lire 18. In tal modo si giunse alla occupazione del territorio, come era nelle intenzioni di Federico II; ed è sintomatico, se le parole hanno un senso, che questa spezieria sulla piazza del Duomo di Piacenza venga appellata “stacio” ossia posto di guardia. Lo stesso termine usato nelle Costitutiones melfitane. Lo stesso documento conferma in forma indiretta l’impossibilità di sopravvivenza di dette stacio con la cola vendita di medicinali. Infatti nell’inventario degli strumenti compare “l’asse per lissar candelle”,la prima testimonianza un privativa, la lavorazione della cera vergine, con l’applica­zione del marchio dello speziale. Questo mai ufficializzato aiuto alla diffusione delle farmacie da parte della Chiesa ampiamente confermato dal citato studio di Benezet per tutto 11 bacino mediterraneo. Altrettante testimonianze si hanno negli statuti degli speziali da noi pubblicati.

L’era moderna
La continuità famigliare non diventerà più visibile prima dell’era moderna. Dopo la peste del 1630 , non si verificano più tante estinzioni di famiglie a cause delle epidemie. Si consolidano famiglie forti, e numerose, che si impongono in ogni settore operativo. Ho potuto seguire le vicende della mia citta dove dall’inizio del XVIII sec. si impongono tre farmacie, situate in tre punti chiave del centro. La Pulzoni presso il Duomo, la De Zoppis, che faceva anche il servi­zio per i poveri con i fondi della Congregazione di Carità, presso ii palazzo del Comune e la Corvi, a metà della via che collegava ii polo religioso a quello civico. In appendice allego altre precisazioni su queste sedi che furono attive rispettivamente per un secolo, per più di 200 anni e, nel mio caso fino ad oggi.
Il segreto del loro successo stava si nella capacità e nella cultura di alcuni loro esponenti; a Parma l’Università istituisce il laboratorio di chimica alla meta del secolo e attiva il corso universitario presso la facoltà di medicina nel 1767. Alcuni ne trassero maggior frutto, lo testimonia ad esempio la biblioteca storica della mia farmacia che comprende 25 testi farmaceutici usciti nel secolo dei lumi.
Operativamente la continuità, vista bone dalle autorità per la sicurezza che conferiva al servizio cittadino, permetteva a queste farmacie di acquisire gradatamente i migliori cli­enti, ossia le famiglie nobiliari che avevano ormai tutte il palazzo in citta e i numerosi conventi. Poiché pagavano alla fine dell’anno, acquistavano volentieri farmaci e composizio­ni di tipo confortativo. Qui saldo la mia relazione con quella tenuta al recente Congresso internazionale di Berlino con la collaborazione di Ernesto Riva. Devo premettere che un mio antenato Antonio (1796)-1873) fu inviato dal padre alla scuola di medicina di Parma, che nel 1816 gli concesse una laurea in Ars Pharmaceutica, dopo aver sostenuto esami di chimica generale, chimica farmaceutica, botanica, scienze naturali. Fu una cosa abbastanza eccezionale poiché Maria Luigia istituì poi un corso abbreviato per farmacisti che concedeva un diploma sufficiente a svolgere la professione. Di lauree in farmacia non se ne parlerà più per molti decenni. Il risultato pratico di questa esperienza fu che detto dr. Antonio acquisterà un consistente numero di testi, che ho presentato a Berlino come specchio della cultura farmaceuti­ca in Italia tra ’700 ed. ’800. E’ molto evidente il nostro ritardo rispetto alle scuole europee (francese, tedesca ed inglese). La maggior parte dei libri stampati prima del 1840 risulta edita a Parigi e in secondo luogo a Milano, se erano tradotti in italiano, insieme ai testi della scuola di Pavia.

In sostanza la cultura farmaceutica, che segna la nascita della nuova farmacia basata sulla scienza chimica con un ap­proccio scientifico alla conoscenza della materia, fu gesti­ta da uomini intraprendenti grazie alla continuità professionale della loco famiglia. La nascita dell’industria farmaceutica in Italia ebbe per­ciò un carattere diverso dal modello societario europeo; furono privati a gestirla, da Schiapparelli a Carlo Erba, da Lepetit a Zambelletti, da Recordati a Corvi Camillo ecc. Certo con un minor potenziale economico ma grazie al carattere europeo dell’insegnamento di cui avevano, potuto usufruire

Conclusioni
Per tutto l’Ottocento :continuo il dominio delle farmacie delle grandi famiglie, i cui esponenti si distinguevano per una maggior cultura teorico-pratica. Ne sono lo specchio le loro biblioteche, ricche di libri e di riviste a carattere europeo. Le altre farmacie, gestite da diplomati che si ac­contentavano di ottenere in qualche modo ii diritto di esercizio, aprivano e chiudevano con molta facilità. Le mogli e i parenti non laureti del titolare potevano continuare a tenere la farmacia avuta in successione, senza limiti stretti di tempo. Questo fino all’inizio del ’900,dopo il fallimento della legge Crispi. Quando dopo 25 anni di generale caos si rese necessaria una maggior efficienza ed uguaglianza delle prestazioni, anche per l’aumentata valenza terapeutica delle specialità chimiche e delle forme iniettabili, vi fu il ritorno al concetto federiciano della farmacia.
Le farmacie divennero concessione ad personam con la legge Giolitti del 1913, ma quelle ritenute antiche ebbero il diritto di essere vendute dagli eredi per una o due volte.
Lo stato fascista confermava col Testo unico del 1934 detta legge, secondo cui, dopo ii 1945,tutte le farmacie, alla morte del titolare dovevano essere messe a concorso. Però il fi­glio laureato avrebbe avuto la precedenza su tutti i concor­renti, anzi si poteva aspettare che completasse gli studi. Dopo la guerra la tradizione culturale di stampo cattolico vide nella famiglia il nucleo di quella società che poteva resistere al comunismo. La famiglia e con lei la farmacia sua espressione ,contro la “cellula rossa” ,che istruiva i figli a denunciare i genitori antirivoluzionari.
Dal 1960 agli anni ’80 si aprirono le cateratte del Servizio Sanitario Nazionale e fiumi di specialità passarono integralmente per la farmacia, rendendo appetibili anche quelle dei paesi più piccoli.
Ma un bel giorno… cadde il Muro di Berlino. Il mondo politico dichiarò morto il comunismo (forse in buona fede?) e i due sistemi, che il fascismo aveva denominato aveva denominato demo-pluto-giudaici… si accordarono presto sulla formula del capitalismo globalizzato, che poco a poco assorbirà le pic­cole partite I.V.A.

Come diceva Isidoro da Siviglia: “finché resterà qualche buon seme e un pugno di terra per seminarli non morirà la spe­ranza di un ritorno alla civiltà che il corso dei secoli ha evidenziato”.

Antonio Corvi


About The Author

Farmacista e docente universitario, è il presidente attuale dell'Accademia di Storia della Farmacia e il direttore della Rivista di Storia della Farmacia

Comments

Comments are closed.