V. ETNOFARMACIA
Quando parliamo di storia della farmacia, intendiamo di solito la storia della farmacia occidentale. Rimangono fuori da questo quadro:
a) le pratiche medico – farmacologiche dei popoli “primitivi”;
b) la farmacia tradizionale delle civiltà orientali;
c) la farmacia ayurvedica indiana;
d) la tradizione mediorientale
e) la tradizione popolare occidentale.
Gli studi in queste aree sono stati trascurati fino al secolo scorso anche per ragioni di natura oggettiva, essendo difficile ottenere informazioni su pratiche a volte tenute gelosamente nascoste e che, nella maggior parte dei casi, non sono fissate nella scrittura.
Nell’etnofarmacia ritroviamo il nostro passato, quello non fissato nei documenti storici perché troppo antico o semplicemente dimenticato, e il nostro futuro: almeno un quarto di tutte le medicine in commercio nel mondo occidentale derivano da specie vegetali, una quarantina in tutto. Molte di queste erano già utilizzate da millenni a scopo curativo dalle popolazioni indigene e, se si considera che delle 250 specie di piante da fiori potenzialmente sfruttabili a scopo curativo, solo l’un per cento è stato studiato, si capisce l’importanza di queste ricerche.
Qualche esempio del passato. La prima pillola contraccettiva, che risale alla metà del secolo scorso, conteneva un ormone derivato dalla Dioscorea, una pianta rampicante che cresce spontanea in Messico e Guatemala. Il disodiocromoglicato, estratto dalla Khella (Amni visnaga) pianta usata come rilassante muscolare fin dai tempi antichi in Egitto ha proprietà antiallergiche, mentre la pilocarpina usata nel glaucoma è un alcaloide derivato dal Pilocarpus jaborandii pianta sudamericana. Oltre alle piante anche gli animali si sono rilevati preziosi, basti pensare al captopril, antipertensivo estratto dal veleno di un serpente amazzonico o l’irudina derivata dalla saliva delle sanguisughe.
L’antica farmacia tradizionale si è rivelata un tesoro per le multinazionali farmaceutiche che cercano di procacciarsi con ogni mezzo i favori di sciamani, stregoni, guaritori, “uomini della medicina”, in grado di orientarli verso nuove scoperte. Purtroppo, il più delle volte, si tratta di un connubio mal riuscito. La storia del microbiologo e farmacologo indiano Debiprasad Chattopadhyay e di un’antica tribù, gli Onge delle isole Andamane, è significativa. Gli Onge sono immuni dalla malaria nonostante vivano in un posto infestato da zanzare infette. Il ricercatore riuscì ad individuare in un loro infuso tre sostanze capaci di ridurre il numero dei parassiti presenti nel sangue. Una scoperta del genere avrebbe potuto salvare la vita a milioni di persone e diventare una fortuna per chi avesse commercializzato la sostanza. Il ricercatore indiano, ebbe l’idea di destinare parte delle royalties alla salvaguardia della tribù ma si dovette scontrare con la realtà. Il brevetto era già stato scippato da un suo superiore. Chattopadhyay pertanto si rifiutò di rivelare il nome delle piante farmacologicamente attive.
Oggi siamo testimoni di un nuovo tipo di imperialismo non più politico ma economico-tecnologico e chi ci rimette sono proprio quei Paesi delle zone tropicali che hanno il primato della varietà di specie vegetali e animali. La posta in gioco è lo sfruttamento di queste zone come sorgenti di farmaci da brevettare.
È per il rispetto di queste popolazioni e dell’antichissima tradizione delle loro pratiche medico-farmaceutiche, che tanto hanno dato alla nostra moderna civiltà e che tanto daranno in futuro, che la loro storia ha un posto d’onore in questa discussione sulla storia della farmacia.